105 research outputs found

    Conferenza "Security, Democracy and Cities, the Saragoza Manifesto". Comunicazione sul tema "Les nouveaux défis au niveau local pour une société multiculturelle"

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    Les thèmes de l’inclusion, de la communication interculturelle et de la participation rappresentent les terrains où sont en jeu les plus grands défis pour la construction d’une cohabitation et d’un savoir vivre ensemble ordonnés et civils auxquels nous aspirons tous. Aujourd’hui il est cependant nécessaire que chacun de nous fasse un effort de réflexion sur les facteurs réels d’intégration. Actuellement il reste bien peu de l’image de l’étranger qui a dominé le débat sur l’immigration en Europe pendant un certain temps: la personne arrivant à la recherche d’un travail et de meilleurs conditions de vie, ayant choisi volontairement de laisser son propre pays, image qui impliquait dans l’imaginaire collectif la propension à accepter conditions de logement et de travail malaisées en direct parallèle avec les standards de vie du pays d’origine ; l’instabilité du projet migratoire et par conséquent sa possible réversibilité. Aujourd’hui, au contraire, les perspectives du phénomène migratoire se positionnent autour d’un projet de stabilité de la part des étrangers. La stabilité du phénomène implique notamment des attentes par rapport au futur, surtout en ce qui concerne les enfants. Il suffit de penser au marché du travail où se reversera le pacte tacite de la soit-disante « intégration subalterne » qui a favorisé l’acceptation des immigrés : la deuxième génération est en effet moins disponible à accepter les travaux délaissés par les autochtones mais qui ont cependant permis à la première génération d’immigrés d’obtenir une certaine insertion socio-économique. Du point de vue des politiques publiques cela implique une forte prise en charge de ce thème de la part des organismes publics, et en cela les villes ont fortement besoin d’être soutenues et épaulées par les gouvernements nationaux et par l’Europe, notamment à travers un rééquilibrage des ressources. En 2004, 29 millions d’euro ont été dépensés en Italie pour financer les politiques de soutien à l’intégration, contre 115 millions destinés à contraster l’immigration, mais je pense que cela doit être une situation commune à beaucoup de pays

    La “costituente modenese del 1797” e la nuova concezione del diritto: il profilo della libertà in Il sogno di libertà e di progresso in Emilia negli anni 1796 – 1797

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    Nella costituzione cispadana del 1797 fu adottata la definizione della "libertà" contenuta nella Costituzione francese dell’anno III allora in vigore (Articoli 2 e 7 della dichiarazione iniziale riguardante i diritti, trasfusi al punto II della dichiarazione dei diritti e dei doveri dell’uomo della Repubblica cispadana) : “La libertà consiste in poter fare ciò, che non nuoce ai diritti altrui. Nessuno può essere costretto a fare ciò che la legge non comanda. Ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito”. I rapporti tra libertà e diritti introducono considerazioni che troveranno adeguata sistemazione nel dibattito nei secoli successivi. L’enunciazione del principio di libertà, infatti, permette di constatare, innazitutto, la sua ampia estensione e la sua capacità di spaziare all’infinito tra le prerogative dell’individuo, ma rischia di non offrire adeguate garanzie sulla capacità di assumere contenuti di effettività. Solo sancendo e disciplinando alcuni specifici aspetti della libertà, attribuendo loro valenza costituzionale ed orientandoli in definiti contesti e manifestazioni determinate (stampa, pensiero, comunicazione, movimento ecc.) in cui agisce la persona, si ottiene il risultato, giuridicamente rilevante, di conferire a queste libertà i tratti di una "barriera" contro eventuali violazioni, nella costante tensione esistente fra Stato e società. Il dibattito congressuale sulla costituzione cispadana è caratterizzato, sia pure nella sua essenzialità, da numerose proposte che testimoniano le preoccupazioni per un’affermazione di libertà che non riesca a mettere chiaramente in evidenza i limiti ad essa correlati. E’ evidente lo sforzo di tradurre in norme giuridiche quanto era dato per scontato in un contesto nel quale né diritti di libertà né doveri individuali avevano mai formato oggetto di proclamazione. Nello stesso progetto del Comitato era contenuta l’espressione “Il trasgredire la legge non è libertà ma licenza” che poi sarà modificata nell’altra “La libertà non è licenza. Il trasgredire la legge è delitto” e, alla fine anche tale espressione sarà del tutto eliminata, innanzi alla constatazione che divieto e reato non possono essere categorie che coincidono. L’aspetto più innovativo della costituzione cispadana in materia di libertà è rappresentato dalla disciplina delle garanzie personali in materia penale. A tale processo innovativo corrisponde, tuttavia, una totale mancanza di autonoma caratterizzazione rispetto al modello francese. Nella seduta del 18 febbraio 1797 la costituente cispadana approva, l’uno dopo l’altro importantissimi principi in un clima che esprime una sorta di ammirazione del progetto francese. E’ l’aspetto più evidente della “rivoluzione passiva”. E’ così affermato che nessuno può essere arrestato se non per essere portato innanzi all’uffiziale di polizia, che nessuno può essere messo in arresto e detenuto se non in virtù di un mandato d’arresto o di un ordine d’imprigionamento adottato dal giudice. La novità è talmente carica di partecipazione ideale e di emozioni che alcuni deputati - ancora non avvezzi all'idea della separazione dei poteri - chiedono chiarimenti sulla differenza tra arresto in flagranza e mandato d’arresto del giudice e temono che l’espressione usata possa essere fonte di equivoci. Compare nel dibattito anche la discussione, vera costante del confronto penalistico da oltre due secoli, sulle ragioni di fondo della somma divisione, del "binomio irriducibile (Padovani), che contrappoine i reati che rappresentano una violazione significativa, i delitti, a quelli che rappresentano l'inosservanza di prescrizioni di polizia, le odierne contravvenzioni. Si giunge a proporre di affidare l’intera materia “correzionale” ai giudici di pace

    Immigrazione e societĂ  multietnica: il nodo della sicurezza urbana

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    Le migrazioni sono legate alle grandi trasformazioni nell’economia mondiale e nei rapporti internazionali, che spingono numerose persone ad assecondare la prospettiva di migliori condizioni di vita, spostandosi nei Paesi più ricchi. Solo riferendosi ad un’ampia accezione del fenomeno, che non escluda alcun profilo rilevante, se ne possono ricostruire in modo adeguato le caratteristiche, valutando appieno le conseguenze che maturano nei Paesi che, come il nostro, sono la meta dei flussi migratori Questo comporta la necessità di superare i pregiudizi ed una certa ritrosia ad affrontarne l'impatto e le dinamiche, assieme ai dilemmi impliciti nel "governare col consenso" i nuovi processi sociali, nell'"aggiornare le regole" e nel fare fronte a significative e spesso difficili trasformazioni nella società e nelle relazioni. Valutando il tema migratorio nell’ottica della prevenzione dell’insicurezza urbana, si uniscono chiarezza di proposizioni e correttezza nel dibattito pubblico. Il tema si fa insidioso quando impone di scegliere le "risposte" alle esigenze di integrazione e di coesione sociale che caratterizzano ogni rapporto "significativo" fra persone provenienti da culture diverse e che si trovano a vivere nella medesima realtà, nella quale esercitano diritti e doveri. Tale scelta non può prescindere dal porsi in modo convincente il problema del "governo dei rischi" che il fenomeno presenta quanto a soddisfacimento delle esigenze di vita, convivenza, rapporto con le istituzioni e controllo sociale sugli aspetti degenerativi che possono insorgere nella società multiculturale e multietnica. L’approccio è evidente, ma la possibilità di dargli concreta attuazione non è per nulla ovvia e scontata. Questa precisazione evidenzia l’insufficienza di alcune impostazioni, pur attente alla salvaguardia ed al rispetto nei confronti dei migranti, che non sono adeguatamente "stringenti" nel definire le politiche di governo del fenomeno effettivamente "incisive" nel dare soluzione ai problemi. Mi riferisco in particolare alle sottolineature sulle persone “necessarie” per svolgere lavori “ingrati”, compensare lo sbilancio demografico, mantenere alto il gettito fiscale e previdenziale del lavoro dipendente. La valorizzazione della condizione di "migrante economico" non induce a politiche lungimiranti ma ad un'acquiescenza tollerante perché "necessitata" che conta sulla capacità del fenomeno di evolvere “da solo” in nuovi equilibri accettabili. La prospettiva della sicurezza urbana induce politiche razionali e non emotive che favoriscono il progressivo assestarsi, favorito dalla multiculturalità, di regole informali di convivenza sul terreno sociale - legate al costume ed alle abitudini di relazioni e convivenza - che possono evolvere senza "strappi" a quello giuridico, che le trasforma in doveri formali, tipici ed eventualmente sanzionati. L'opposto di quanto sta avvenendo attraverso una sorta di sviamento nell'uso delle ordinanze per ragioni di sicurezza urbana previste dal nuovo art. 54 del Testo unico degli Enti locali n. 277/2000. La regolazione formale delle criticità, in molti casi, non consente risposte adeguate in quanto impossibile, controproducente o rifiutata, perché insostenibile, complicata, spesso inutile. Anche sull’immigrazione occorre "aprire" alla regolazione implicita ed alle buone prassi. Deve essere però forte il quadro normativo di fondo, che riguarda tutti, compresi i migranti, in particolare con leggi sul lavoro adeguate a disciplinare tutto il lavoro, compreso quello per loro appetibile, per impedire comportamenti lesivi dei diritti e della dignità. La “regolazione implicita”, come sviluppo di quella generale, contrasta in questo modo le degenerazioni: lavoro "nero", mancanza di diritti, male inteso senso della tolleranza

    Magistratura flessibile

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    Il mantenimento di una presenza diffusa di Tribunali e Procure sul territorio nazionale è utile per ridurre gli “spazi” periferici, evitare “marginalizzazioni” di zone per quanto riguarda il controllo (è probabile che in certe zone d’Italia non vi sia criminalità significativa proprio perché sin dal Medioevo vi è un controllo giudiziario diretto, costante e capillare sul territorio ed una risposta di giustizia adeguata e specifica): il contatto diretto ed esclusivo di un ufficio giudiziario con quella particolare porzione di territorio nazionale solleva il livello di attenzione dedicato alla stessa e garantisce un approccio specialistico alle sue problematiche. Ooccorre verificare se siano individuabili soluzioni che consentano di salvaguardare i vantaggi di ambedue le ipotesi, mediante l'adozione di un modello organizzativo diverso che le contemperi.Per quanto riguarda il settore penale, si potrebbe, allora, andare alla ricerca di un nuovo modello, che consenta di contemperare i benefici prodotti dal mantenimento di una strutturazione territoriale “rigida” delle circoscrizioni giudiziarie con quelli che deriverebbero dall'introduzione di un sistema “flessibile” di applicazione di magistrati/procuratori appartenenti ad un organo/ruolo utilizzabile in ambito nazionale. La soluzione potrebbe individuarsi su un piano diverso dalla riduzione mediante accorpamento di uffici giudiziari, in modo da salvaguardare i vantaggi della distribuzione capillare degli stessi sul territorio nazionale: potrebbe essere sufficiente prevedere una struttura (un ruolo) a livello nazionale, composta da magistrati/procuratori, che proceda all’applicazione, per singole indagini, di suoi appartenenti alle Procure territoriali che ne abbiano necessità: con fissazione normativa dei criteri che impongano alle Procure territoriali di formulare richiesta di applicazione in presenza delle condizioni previste

    Mafie e prevenzione

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    Qualunque disegno di riforma della normativa in tema di mafie deve proiettarsi in direzione della prevenzione e repressione di tutte le condotte di fiancheggiamento e di agevolazione tipiche della “borghesia mafiosa”, e deve prevedere l’incommerciabilità di ogni utilità che derivi dalla commissione di reati di mafia, di reati attinenti al traffico di stupefacenti e del reato di riciclaggio. Si dovrebbero, innanzitutto, configurare, partendo da una prospettiva di tutela avanzata, dei modelli di reato di pericolo presunto, relativi allo “scambio funzionale”, che prevedano la punibilità del già solo mettersi a disposizione di un’associazione mafiosa o di ogni accordo intercorrente tra un soggetto e la stessa, in base al quale si prometta una prestazione in cambio di un’utilità. Si dovrebbero, poi, introdurre delle fattispecie di reato di evento o di pericolo concreto, strutturate come reati propri per le categorie professionali, per quelle economico – imprenditoriali, per quelle attinenti a pubbliche funzioni. Fattispecie da imperniarsi sullo stravolgimento funzionale. Il bene giuridico tutelato – ordine pubblico – si dovrebbe specificare nell’interesse allo svolgimento corretto della funzione pubblica o dell’attività privata e, quindi, nelle finalità ordinamentali che il corretto esercizio di tali funzioni e attività intende perseguire. A tale fine, i temi che il legislatore dovrebbe affrontare sono quelli dell’identificazione delle categorie destinatarie di tali fattispecie, della delineazione delle condotte vietate, della definizione dell’evento, dell’indicazione dell’elemento soggettivo richiesto (dolo). Le condotte vietate dovrebbero consistere nell’uso distorto del potere o della facoltà (innanzitutto attraverso la violazione degli obblighi o dei doveri connessi al loro esercizio), al fine del raggiungimento di uno scopo diverso da quello per il cui conseguimento il potere o la facoltà stessi sono stati attribuiti dall’ordinamento. Si tratterebbe, quindi, di configurare fattispecie di abuso. Gli eventi dovrebbero essere costituiti dall’agevolazione di un’associazione e dal conseguimento di un ingiusto vantaggio, anche non patrimoniale, proprio o altrui (rendendosi così configurabile anche il tentativo). In alternativa, il fine del conseguimento di un ingiusto vantaggio come qui descritto potrebbe essere delineato come elemento di dolo specifico

    Le costituzioni cispadana ed europea. Ideali, identitĂ  comune ed autonoma responsabilitĂ  dei territori a due secoli di distanza,

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    Il contributo richiesto ai relatori consiste nel mettere a fuoco alcuni specifici profili dei principi di libertà ed eguaglianza proclamati dalle due Carte costituzionali, diverse nel percorso di formazione e lontane nel tempo ma vicine per la funzione di dare voce a speranze per un futuro nuovo delle Istituzioni. Trovare tratti comuni di differenti esperienze costituzionali comporta lo sviluppo della comparazione sia giuridica sia storica. Si tratta di scegliere alcuni temi tra i tanti. «Ho ritenuto opportuno farmi guidare dal forte risalto che hanno avuto due particolari profili nel dibattito sulla recente Costituzione europea: quello delle radici religiose e culturali del vecchio continente», di quali è nata un’appassionata discussione sul “preambolo” e quello sui municipi" Quanto alle "radici religiose" il rischio di enunciazioni identitarie rischia di spingere a compromessi fatti di «affermazioni ambigue e reticenti, col rischio concreto di mettere in forse l’affermazione stessa di uno stato laico e pluralista, di una società composta di credenti e non credenti». Lo strumento non è lai "norma" ma il "preambolo". Guardando alla Costituzione cispadana appare «accettabile un preambolo che abbia la funzione di individuare una base comune riconosciuta e può assumere il senso di un progetto condiviso che, dal punto di vista normativo, nulla toglie o aggiunge rispetto alla disciplina giuridica dettata dalle norme. Nel momento in cui, invece, si va alla ricerca di una sintesi tra concezioni contrapposte, come è avvenuto per la Costituzione europea, il preambolo perde la sua stessa ragion d’essere, quella della preesistenza di un complesso di enunciazioni già condivise e, oltre ad essere privo di qualsiasi funzione normativa – alla pari di qualsiasi preambolo – non fa che scoprire i punti di frizione tra le varie opzioni culturali e politiche». Quanto al rapporto fra le realtà locali e lo Stato, va rilevato che il tema dei "territori" rappresenta una costante. «Il nuovo slancio verso la partecipazione individuava come sede privilegiata dell’autogoverno i municipi, un’istituzione risalente ed organizzata che, grazie al nuovo sistema di valori di libertà ed uguaglianza, era potenziata e valorizzata, portando ad ulteriori ed ambiziosi traguardi il ruolo fondamentale che le comunità locali avevano acquisito in queste terre sin dal medio evo. L’art. 208 della Costituzione cispadana attribuiva ai municipi competenze molto ampie: dalla conservazione dei “fondi pubblici” alla “riscossione delle entrate”, e poi gli “affari di acque e strade”, annona, vettovaglie, “ornato”, spettacoli, sanità, pubblica istruzione, rispetto dei regolamenti, “buon ordine”, “sicurezza e salubrità delle carceri”. Il tutto con obbligo, diremmo oggi, di bilancio consuntivo, nel senso che “ogni amministrazione municipale è tenuta al fine di ciascun anno di dare conto della sua azienda all’amministrazione centrale"». Con la costituzione europea il problema assume i profili della "sussidiarietà": i problemi vanno affrontati e risolti alla scala più prossima ai bisogni dei cittadini. La chiara formulazione del progetto di Costituzione europea afferma che «In virtù del principio di sussidiarietà, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva, l'Unione interviene soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell'azione prevista non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri, né a livello centrale né a livello regionale e locale, ma possono, a motivo della portata o degli effetti dell'azione in questione, essere meglio raggiunti a livello di Unione»

    Prostituzione: abbandonare le semplificazioni e valorizzare le politiche sociali

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    Nel 1958, quando fu approvata la legge Merlin, il Paese - a ragione - sentiva ingombrante, antiquato e legato a vecchi pregiudizi un sistema di regolamentazione della prostituzione incentrato essenzialmente sull'autorizzazione all'esercizio all'interno di specifici locali, sotto il controllo di pubblica sicurezza e sanitario. L'esistente contrastava con l'idea stessa di dignità sociale, ma nella nuova disciplina prevalse un'irragionevole "finalità moralizzatrice", le cui previsioni andarono completamente disattese. Non era accettabile una legalizzazione della prostituzione filtrata dalla "mediazione" dello Stato. Era però insensato che la Stato si ritraesse senza fare altro. La prostituzione, con scelta che appare condivisibile, non fu perseguita e non assunse rilevanza penale, per non intervenire sull'astratta libertà di autodeterminazione di chi la esercita. Lo Stato "non si intromise" ma lasciò tuttavia chi, prostituendosi, era astrattamente "libero" di autodeterminarsi nella totale "solitudine". Chi esercita la prostituzione non trova alcun sostegno che lo salvaguardi da quanto, nei fatti, comprime tale libertà. Il “lavoro” in questione viene solo apparentemente tutelato limitandosi a chiudere le case di prostituzione ed a persegire i comportamenti di chi "approfitta" della condizione. Nessuna norma consente di creare ambiti, luoghi, situazioni in cui la prostituzione possa essere "esercitata legalmente" e non solamente "tollerata" o "ignorata". L'intervento penale sulla prostituzione s'incentra, con una tecnica legislativa viziata da eccessi di analiticità, sulle figure del favoreggiamento e dello sfruttamento, senza curarsi minimamente di quale sia lo "spazio" che l'attività di prostituzione occupa nei contesti urbani e nelle relazioni sociali, così che il fenomeno "deborda" e "crea disturbo" in tutti gli ambiti in quanto nessun "luogo" gli può veramente appartenere. Non essendovi uno spazio di libero esercizio della prostituzione ma esclusivamente la sua "mancanza di rilievo penale", la tendenza diventa sempre più quella di considerare la prostituzione non tanto un fenomeno sociale, ma una realtà da contrastare, da contenere da mandare "più in là". Davanti a tanta ipocrisia si fronteggiano due posizioni. Da un lato, la proposta di ammettere come "punto fermo" la possibilità di esercitare la prostituzione all'interno delle case e dall'altro lato il contrasto a tale asserzione, nella consapevolezza di quante contraddizioni questa "soluzione" faccia sorgere e quali tensioni e difficoltà le sue dinamiche possano portare nel tessuto sociale. Un secondo elemento di riflessione riguarda i rischi legati alla prostituzione che si rafforzano più la stessa resta "nascosta". Consentire al fenomeno di rendersi palese, di localizzarsi e di spostarsi senza la modifica del quadro normativo, lascia del tutto irrisolti i nodi problematici che lo caratterizzano. Anche la soluzione della zonizzazione, e cioè la realizzazione di un quadro in cui la prostituzione di strada è accompagnata da alcuni segmenti di controllo, fatti sulla base di programmati interventi di Polizia e di protezione in un quadro di "riduzione del danno", presenta aspetti contraddittori. Se da un lato alleggerisce i rischi e la conflittualità nei quartieri in cui essa avviene oggi in modo incontrollato, il suo esercizio più sorvegliato presenta, tuttavia, altri evidenti inconvenienti. Suscita forti perplessità la possibilità che tale soluzione possa essere praticata in città come le nostre, ed in territori fortemente antropizzati e sensibili al sentimento d’insicurezza, senza una legislazione nazional

    Il controverso rapporto tra l'illegittimitĂ  del permesso di costruire e le contravvenzioni edilizie

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    La concezione sostanzialistica delle contravvenzioni edilizie ha dato vita a due ricostruzioni interpretative che presuppongono, quale oggetto giuridico di tutela, il bene giuridico finale: ricorrerebbe l'elemento oggettivo del reato per ogni intervento che non sia accompagnato da permesso legittimo, indipendentemente dal fatto che l'atto sia stato rilasciato. Una prima ricostruzione della teoria, individuata dalla sentenza a Sezioni unite del 1993 (Borgia) configura, per chi costruisce con permesso contrastante con la normativa urbanistica, il solo reato previsto dall'art. 44 lett. a) del D.P.R. n. 380/2001. In forza di successiva interpretazione giurisprudenziale, il “costruttore” che si avvale di permesso illegittimo (eventualmente in concorso con chi ha rilasciato il permesso) può rispondere, a seconda della gravità dello “scarto” esistente tra opera realizzata e legalità urbanistica, di tutte e tre le ipotesi previste dal richiamato art. 44. La contrapposizione tra “bene strumentale” e “bene finale” evolve ed evidenzia una criticabile sovrapposizione tra interpretazione delle condotte tipiche ed esigenze di politica criminale. Il fatto tipico, infatti, nella sua inequivoca formulazione, presuppone il permesso come titolo di legittimazione e pone come garante della sua legittimità, senza prevedere sanzioni penali al riguardo, il solo dirigente comunale (e non il privato che l'ha richiesto). Il bene giuridico non può essere sospinto ad oltrepassare la funzione interpretativa che gli è propria per trasformarsi nell'elemento del fatto "legittimità del rilascio". Non può il "permesso di costruire" la cui materiale assenza o il cui mancato rispetto integra le contravvenzioni in esame, diventare "permesso di costruire legittimo" in base alla valutazione ex post del giudice. In questo caso infatti il permesso di costruire, privo di legittimità equivarrebbe, senza base normativa, ad assenza del titolo abilitativo facendo venire meniìo il diritto di edificare. E’ opportuno evidenziare che l’evolversi dell’interpretazione sostanzialistica mette a dura prova i profili della divisione dei poteri (sottesi agli atti autorizzativi la cui mancanza integra reato), del bene giuridico (che la norma intende chiaramente come bene strumentale conseguente all'esercizio della funzione) e del principio di legalità (che non consente di allargare, senza base normativa, il fatto tipico dal contrasto tra l'edificare al titolo abilitativo, alla "conformità" col titolo abilitativo ma reputato in contrasto con gli strumenti urbanistici). Si tratta di indiscutibili “resistenze” che nascono dalla tecnica legislativa con cui sono formulate le contravvenzioni edilizie e che la giurisprudenza tende a sottovalutare. Il sistema urbanistico - edilizio (come avviene, in modo più o meno intenso, per altri beni o anche per semplici “settori” dell’ordinamento tutelati con funzioni amministrative), è infatti incentrato su di un complesso di poteri e di provvedimenti dell’autorità che delimitano l’intera materia, la cui astratta portata non può essere sottostare a valutazioni di politica criminale sulla concreta “efficacia”, anche se la "deterrenza" fosse talvolta così debole da dar luogo ad inerzia ovvero a lasciare privi di conseguenze provvedimenti illegittimi. L’interpretazione suggerita dalla giurisprudenza non è in grado di risolvere il problema di una tutela più diffusa degli interessi ambientali (se non aggiungendo, ad un allargamento improprio del bene giuridico, una forzatura della tipicità) e finisce col travolgere il significato concreto e “culturale” del permesso, prima ancora che sul piano della liceità della condotta, su quello della concreta disciplina amministrativa che il legislatore ha realizzato nell’ urbanistica e nell’edilizia

    Diritto penale, azione amministrativa e bisogno di nuove risposte sulla sicurezza urbana

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    Tutela dei beni giuridici e protezione dal rischio urbano segnano una forte evoluzione, pongono la "questione sicurezza" al centro di un processo di ridefinizione ed impongono sia la ricerca di nuovi strumenti, sia la costruzione di rapporti più stretti fra l'azione di contrasto dello Stato ed il sistema di protezione sociale diffusa, per dare vita alle politiche integrate di sicurezza. La sicurezza urbana si presenta come esigenza della vita delle persone e delle comunità per le relazioni, la convivenza, la coesione sociale. I nodi da sciogliere per individuare il ruolo dei Comuni sono l'extrema ratio nel ricorso al reato ed alla pena e l'individuazione di strumenti che correggono le criticità prescindendo da essi. Occorre evitare la deformazione securitaria ed incidere, con l'azione preventiva, su inciviltà, disturbo e degrado attraverso il coinvolgimento dei Comuni resi capaci di rispondere in maniera puntuale alla domanda "oggettiva" di maggiore vivibilità. Questo deve avvenire assecondando le loro funzioni tipiche ed impedendo che le diverse azioni sulla qualità della vita urbana siano inefficaci contro l'insicurezza perchè il Comune non può assumere, contro di essa, alcun ruolo significativo. Il governo congiunto di prevenzione del rischio urbano e politica criminale conferisce alla sicurezza caratteristiche di uniformità che consentono interventi appropriati perché calibrati e non legati alla sola emergenza. Sino ad oggi le Istituzioni locali hanno dovuto "inseguire" l'esigenza di sicurezza e subire più che governare i programmi e le azioni rivolti ad affrontare il fenomeno, nel costante conflitto fra appropriatezza e consenso. IL coordinamento voluto dalla Costituzione, il ruolo delle Regioni e l'attivismo dei Comuni impongono più stretti legami tra politiche di integrazione, politica criminale e coesione sociale. L'evoluzione dei rapporti i ha trasformato il qiuadro della convivenza e coinvolge un insieme più ampio di situazioni che portano, oltre alla sensazione diffusa, alla spinta rivendicativa di intere comunità che sentono messa in discussione la quotidianità, percependo il rischio di rimanere ai margini di una società che rende vacillanti acquisizioni ritenute definitive. Le letture diversificate dei fenomeni portano a confrontarsi due diverse sensibilità: quella che si livella sui divieti e sul contrasto e quella che vede nella ricostruzione dei legami sociali fra le persone la prospettiva di una sicurezza urbana attenta a rispondere ad un bisogno diffuso
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